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Africa: così si misura l'efficacia degli aiuti

di Chiara Somajni

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22 aprile 2009

In piena crisi i contributi internazionali sono sempre più preziosi. Ma a rischio di un doppio legame: gli aiuti sono per i Paesi in via di sviluppo una leva di condizionamento politico e di dipendenza economica.

«Permetteresti a quest'uomo di andare con tua figlia?». Guardi il faccione enigmatico di «quest'uomo» campeggiare sullo sfondo bianco di un enorme cartellone al bordo della strada - quaranta-cinquant'anni, un mezzo sorriso un po' inquietante - e la risposta scontata ti morde la pancia. «Perché allora vai con la sua?», vieni incalzato subito dopo, in un carattere appena più piccolo. Accanto al linguaggio graffiante, moderno di questa campagna di sensibilizzazione, se ne affollano altri, in genere più tradizionali. Del tipo, famigliola abbracciata davanti alla televisione, con un invito alla fedeltà coniugale per contrastare la diffusione dell'Aids.
Siamo a Kampala (ma potrebbe essere un'altra città africana: le foto che accompagnano questo servizio sono state ad esempio scattate a Lagos). Manifesti, cartelli, sticker di ogni dimensione competono per un po' di attenzione, e non solo per promuovere una birra che ti renda la serata vincente, un abbonamento telefonico che consenta di navigare online anche nel villaggio più remoto, o Barack Obama, la cui campagna elettorale ha lasciato una scia di piccoli Obama sorridenti nei mercati di abiti usati (molti di provenienza occidentale), tra i venditori di banane arrosto, sui motorini che scansano guizzanti le buche per terra. Moltissime affissioni ospitano comunicazioni d'utilità sociale, per la prevenzione dell'Aids, la lotta alla corruzione, i diritti delle donne, dei disabili, dei poveri.
In una città come Kampala, capitale dell'Uganda, l'affollamento di messaggi a scopo benefico salta all'occhio. Sembrano sgomitare per farsi spazio. Come mai una simile profusione di impegno? In Uganda si è concentrato un elevato numero di organizzazioni non governative: tra internazionali e locali (alcune delle quali microscopiche) si arriva a quasi settantamila soggetti registrati, la metà dei quali attivi. Una cifra notevole. Ma per percepire in maniera più precisa il peso della solidarietà nella società ugandese c'è un dato ancora più eloquente: è il contributo degli aiuti internazionali al budget nazionale, stimato al quaranta per cento.
La presenza massiccia di soggetti esterni impegnati a vario titolo nella vita sociale di un Paese come l'Uganda ha evidenti giustificazioni: gli indici di povertà, morbilità (cioè frequenza delle malattie) e mortalità infantile sono elevati, il tasso di alfabetizzazione basso, e nel Nord, al confine con il Sudan, la popolazione patisce le brutalità di un conflitto che si trascina da decenni.
È dunque un evidente segno di civiltà il desiderio di contribuire allo sviluppo di un Paese quale l'Uganda. Soprattutto in un periodo in cui la recessione economica globale promette di impattare con particolare violenza sui Paesi più svantaggiati del mondo: tra mancate rimesse e peggioramento degli scambi commerciali, un costo stimato dalla Banca mondiale in ottocento milioni di dollari.
Il problema dunque non è aiutare, ma come farlo. Per esempio, è discutibile l'efficacia di risorse economiche donate a un Paese in via di sviluppo da parte della comunità internazionale che siano impropriamente vincolate da condizioni che nulla hanno a che vedere con gli interessi dello stesso Paese. Per esempio, regalare dollari per la lotta all'Aids pretendendo che vengano spesi solo per promuovere l'astinenza, oltre che essere uno sforzo di dubbia efficacia costituisce un'ingerenza fastidiosa nella politica e nei valori del Paese beneficiario. Lo stesso vale per quegli aiuti che, invece di essere investiti per attivare un circolo virtuoso nell'economia locale, possono essere spesi solo presso attori economici espressione del Paese donatore: ti presto o regalo dei soldi, ma solo a patto che tu spenda da me. Gli aiuti usati come leva di politica estera si trasformano così in uno strumento odioso di condizionamento e di dipendenza (e di vantaggio economico per il Paese donatore!). Lo denunciano con forza crescente alcuni economisti, come Paul Collier della Oxford University (L'ultimo miliardo, ora tradotto da Laterza) o Dambisa Moyo, nata e cresciuta in Zambia, con alle spalle studi nelle più autorevoli università statunitensi (Dead Aid, appena uscito da Farrar, Straus and Giroux, con un'introduzione di Niall Ferguson).
Con tesi provocatoriamente radicali: un'interruzione del flusso, sostiene Moyo, una telefonata da parte di tutti i benefattori per dire ai beneficiati «sai che c'è? Tra cinque anni da me non riceverai più nulla» sarebbe una terapia shock preferibile alla situazione attuale, nella quale il denaro rischia di essere distolto da governi corrotti, sprecato o usato in modo tale da contrastare l'intraprendenza dell'imprenditoria locale.
Fuori dal gioco della provocazione, rimane l'urgenza di un salto qualitativo nella gestione degli aiuti. La stessa Moyo vede ad esempio nel microcredito uno strumento efficace. Che ha il vantaggio di promuovere l'iniziativa locale, di consolidare il tessuto sociale, di investire fiducia e responsabilità reciproca, oltre che soldi.
  CONTINUA ...»

22 aprile 2009
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